Chiunque abbia un minimo di familiarità con la Rete, sa che la stragrande maggioranza degli strumenti, social network, applicazioni che usiamo quotidianamente sono gratuiti. La consideriamo ormai una consuetudine acquisita: Facebook, Twitter, Gmail, e centinaia di servizi del genere non richiedono investimenti economici per essere utilizzati, nonostante la loro indiscutibile qualità. Il loro modello di funzionamento è finanziato dalla pubblicità, attirata dai volumi impressionanti di traffico che questi giganti di Internet riescono a muovere. 

Spesso però non pensiamo a quanti dati queste compagnie ricevano ed elaborino ogni giorno. Secondo alcuni, è questo il prezzo che paghiamo: la cessione di un quantitativo straordinario di dati, preferenze, comportamenti ai servizi che utilizziamo. Nella maggior parte dei casi, le modalità attraverso cui vengono utilizzate le tracce che ci lasciamo dietro durante le nostre sessioni di navigazione vengono ignorate, in altri casi invece non sono molto trasparenti.

Recentemente, sono stati svelati alcuni meccanismi sottostanti alla policy di Facebook in merito al funzionamento della pubblicità sul social network più frequentato della Rete. Senza scendere troppo nel dettaglio, appare chiaro come sulle pagine degli iscritti appaia pubblicità calibrata perfettamente su quelle che sono le proprie abitudini di navigazione, di ricerca, di consumo.

Su Twitter, invece, la pubblicità sembra ancora poco invasiva. Spesso si limita ad account o a tweet cosiddetti “promoted”, che compaiono sulle timeline degli utenti, senza personalizzazioni eccessive. Un fenomeno collegato, che ha fatto clamore quando protagonista della vicenda è stato l’account di Beppe Grillo, è quello dell’acquisto di followers. E’ stato infatti dimostrato che diverse aziende (ma anche privati) hanno letteralmente comprato pacchetti di followers, a prezzi modici, per far lievitare i propri numeri. Va detto che, in ogni caso, l’influenza di un account Twitter non si misura dai soli numeri, e quindi questa pratica, tra l’altro scorretta, sta anche lentamente scomparendo. Resta invece da verificare in che modo Twitter utilizzi i nostri dati: curiosamente, nell’era della tecnologia ai massimi livelli, per scoprire di quali nostri dati Twitter sia in possesso, e per sapere che utilizzo ne fa, bisogna inviare un fax e seguire una procedura abbastanza complicata. Non certo un grande esempio di trasparenza.

In ogni caso, resta il dilemma per chi utilizza questi servizi: sono veramente gratuiti? Oppure li paghiamo “vendendo” i nostri dati agli uffici marketing di chi poi verrà a fare pubblicità sui nostri profili? Come al solito, forse la verità sta nel mezzo. E’ vero che forse i nostri dati fanno dei percorsi lunghissimi e finiscono in mano a persone di cui non abbiamo neanche idea, ma i vantaggi che otteniamo dall’utilizzo quotidiano di simili strumenti probabilmente valgono bene qualche sacrificio in termini di privacy. Il limite è sempre il buon senso, sia da parte nostra come utilizzatori della rete, nel prestare massima attenzione a quali e quanti dati condividiamo, sia da parte delle aziende nel cercare di offrire la massima trasparenza possibile nei riguardi degli utenti.